dove altro devi andare - incipit

PREMESSA

La sua vita si fermò il 20 febbraio del 1985. Tutto quello che è venuto dopo è stato il tentativo goffo e silenzioso di cancellare ciò che era successo quel giorno.

La sua vita si arrestò in uno stand-by che scoloriva il presente e rimandava a un futuro senza più cardini. Tutto diventava opinabile.

Le idee persero convinzione, i sensi intensità e su tutte le esperienze della vita calò una nebbia grigia che intartarò le giunture e impedì lo scorrere del tempo, anestetizzando i sentimenti e annacquando le emozioni.

 

PRIMO CAPITOLO

Pedalata dopo pedalata sentiva il sudore scendergli dalla fronte, mischiarsi alla pioggerella che stava venendo giù e appiccicargli i capelli alla faccia.

L’aria entrava dalla bocca asciugandogli la saliva e le speranze. Anche gli occhiali si erano appannati dal vapore che trasudava dal suo viso.

I camion passavano senza tregua, su quella strada provinciale, facendo traballare la bici. A Martino tornava in mente sua madre che tante volte si era fatta giurare che non sarebbe mai passato per quella strada: “È pericolosa, come solo poche altre cose a questo mondo”, ma era anche la più veloce e lui, quella sera, doveva rischiare.

Stringeva le mani sul manubrio, quasi a sbriciolarne le manopole mentre il buio si stava avvicinando, inesorabile come il lupo cattivo nelle favole.

La molletta da bucato che aveva messo sui pantaloni, sentiva che sbatacchiava sui raggi. “Mollettina, ti prego, non tradirmi, non sganciarti. Non stasera”. Tutto era andato storto in quel pomeriggio di metà inverno. 

Quei due, Arturo e Michele, gli avevano nascosto la bici, tronfi dei loro tre anni in più e incarogniti dalla predilezione che Angelina gli dimostrava.

Si erano pure permessi di prenderlo in giro perché non la trovava, la bicicletta. Per forza, l’avevano nascosta nel capanno del padre di Arturo.

E lì ci volevano le chiavi. Quando poi le madri li avevano chiamati per tornare a casa allora ‘sta chiave era saltata fuori.

Nel capanno l’avevano anche sistemata dietro ai fucili da caccia. Martino aveva dovuto spostarli, uno per uno, lentamente, come aveva visto fare in montagna, dagli artificieri con una bomba inesplosa, avanzo della guerra.

Quel che è stato peggio è che a tutta quella scena aveva assistito Angelina.

A un certo punto aveva anche cercato di difenderlo.

Accidenti; lei difendeva lui.

Sarebbe dovuto succedere il contrario.

Il ricordo di quella umiliazione gli faceva salire le lacrime ma non poteva permettersele in quel frangente.

Si era fatto, così, maledettamente tardi e non aveva avuto altra scelta se non quella di rischiare e prendere la provinciale, nonostante i camion, le promesse a sua madre e la sua paura. Si immaginava sua madre, inquieta, preparare la cena e tergiversare prima di metterla in tavola, ingoiando l’ansia che saliva per far finta che fosse tutto sotto controllo.

Sapeva che sua madre avrebbe tifato per lui e risposto a suo padre con un gran sorriso rassicurante.

Ma sapeva anche che suo padre Giovanni non avrebbe resistito alla tentazione di destabilizzare gli animi con l’ennesima scenata, e l’inevitabile castigo. Il castigo, poi, sarebbe stato con certezza il divieto di usare la bici per chissà quanto tempo, e Martino doveva tornarci ad Albairate, e spiegare ad Angelina qualcosa per giustificare quello a cui lei aveva assistito. Se non ci fosse più andato quei due avrebbero avuto campo sgombro e avrebbero fatto a pezzi la sua immagine agli occhi della ragazza.

Non aveva mai capito bene, poi, se suo padre si imbestialiva così tanto perché realmente si spaventava per la sua assenza o se mai perché si sentiva scavalcato da un pischello di dodici anni che non gli ubbidiva. E, da qualche tempo, aveva iniziato a convincersi che, semplicemente, non volesse perdersi l’occasione per prendersela con qualcuno e sfogarsi.

Suo padre era fatto così; accumulava tensioni che da qualche parte dovevano trovar via d’uscita.

Era una specie di vulcano umano che raccoglieva rabbia e la rivomitava fuori incandescente e pericolosa.

Probabilmente quelle scenate risultavano terapeutiche per lui. Poi, infatti, si godeva un equilibrio precario e ingenuo per uno o due giorni.

Ma erano traumatizzanti per chi, invece, le subiva.

Anche la luce si stava arrendendo ma Martino, no, non poteva. Doveva arrivare a casa prima che la cena fosse servita in tavola.

Pedalare, anche senza più forze, contro l’acqua che adesso veniva giù abbondante, per non finire fuori strada, per non farsi investire.

Velocemente per tenere la dinamo della bicicletta alta, così che fosse visto dalle macchine, dato che i catarifrangenti che suo padre gli aveva montato sui pedali, glieli avevano rubati quei due sulla collina.

C’era la pioggia, c’era il sudore e le gambe avevano iniziato a fargli male e le auto e i camion lo facevano sbandare e infine un dolore forte, fortissimo, al polpaccio, un crampo. Un urlo. La mano istintivamente si è posata a stringere il polpaccio per massaggiarlo e persuaderlo a non mollare.

Ma la bici ha sbandato, due, tre volte. L’impatto con qualcosa di duro, potente, veloce, un’ombra scura enorme come una nave che si allontanava, come una montagna delle Dolomiti che appare all’improvviso di notte mentre stai viaggiando sull’autostrada per Trento, un dolore forte al viso, la sensazione di essere stati schiaffeggiati, spostati, travolti da un tornado e di non sapere più qual è il sopra e quale è il sotto e poi il duro dell’asfalto, il sapore del fango in bocca misto a quello del sangue. Le luci delle macchine sempre più lontane, i rumori che non sentiva più come se avessero chiuso l’audio, poi la nausea, il bruciore, ovunque, e un forte sonno che lo prendeva alla testa e, alla fine, la resa.

 

“Anche la macchina ci si mette adesso” pensò Virginia “anche la macchina, porco cane…”

Di nuovo un altro tentativo, il motore singhiozzò sotto quella spinta ma non aveva la verve per partire.

“Non adesso, non è il momento, non ora, domani poi ti riposi, stai ferma, ti riposi. Non ti userò per tre giorni, ma ora parti, non intralciarmi, forza”.

Riprovò a girare quella chiave al buio, il motore sembrò quasi convincersi invece finì per sputare e basta.

“Stronza” sentenziò Virginia. Non servivano né le minacce, né le lusinghe.

Ancora un ultimo tentativo e poi avrebbe dovuto iniziare a pensare a un’alternativa e velocemente anche, se non voleva perdere l’aereo. Sua madre non l’avrebbe mai perdonata.

Girò la chiave senza speranza e finalmente l’auto si mise in moto.

“Ok, forse era solo un po’ fredda, poverina, e io sono un po’ agitata…calmati, va bene?”.

Frizione, acceleratore. Voleva sentirlo urlare quel motore, per essere sicura che non si sarebbe spento, che non l’avrebbe tradita. Piano, inserì la marcia e qualcuno le bussò al vetro: “Grande, Virginia, ottima partita.”

“Grazie, ma, scusami, ora devo andare se no lo perdo veramente l’aereo”.

 

La partita era stata sì, vinta ma con cinque set e nessuno se lo sarebbe aspettato.

C’è una regola in ogni competizione sportiva: mai sottovalutare chi hai di fronte.

Certo che quelle della “Jalex” gliene avevano date di filo da torcere.

Soprattutto la piccolina con la faccia da psicopatica. Ci dava dentro come se avesse dovuto riscattare tutta la sua vita con quella partita.

Non le avresti dato una lira vedendola, invece quando saltava aveva l’elevazione di una cavalletta. Fisicamente sembrava disegnata da un writer, bassa, tutta nodosa e per niente femminile. Ma con una palla tra le mani leggera e precisa.

E poi c’era qualcosa in quella squadra… un accanimento… quasi eroico nella ricerca della vittoria.

Forse le “Jalex” avevano venduta cara la pelle proprio perché non avevano nulla da perdere: speravano nel colpaccio. Di sicuro non avrebbero risollevato le loro sorti in classifica con quella partita ma si sarebbero sentite meno fuori luogo in quella categoria.

Quindi avevano lottato e fatto lottare, erano anche riuscite a passare in vantaggio, erano motivate, concentrate, unite. Una furia informe che dilapidava energie, ubriache di adrenalina. Ci avevano sperato prima e, sul 2 a 1, anche creduto.

Poi, inesorabilmente, avevano perso. Questa era la realtà.

Perché le “Dubliners” erano le prime in classifica, le intoccabili, le inviolabili, quelle con il design delle vincenti e poco si può fare di fronte a tanta supremazia.

 

Il riassunto mentale della partita non era riuscita a tranquillizzarla. L’immagine imbestialita di sua madre muta e glaciale la opprimeva.

Non se ne parlava proprio di perdere l’aereo.

Sicuramente quella pioggerella fine non aiutava la velocità, su una strada così pericolosa, ma doveva farcela e basta. Come era successo poco prima in campo. Dovevano vincere. Punto.

Sentiva i capelli ancora bagnati sulla testa. Era stata un’idiozia non averli asciugati ma non c’era proprio il tempo.

Meglio prendersi un mal di gola comunque, meglio non essere in forma ma esserci su quello stramaledetto volo.

Doveva tenere ancora la concentrazione al massimo, fissava i fari posteriori dell’Alfa Romeo davanti, senza sbavature, quello era il suo obiettivo: raggiungere quell’auto.

Solo così avrebbe macinato i chilometri per arrivare in tempo all’aeroporto.

Era una pratica di concentrazione sul campo da gioco che lei conosceva bene.

Non smettere di guardare il campo, non perdere di vista neanche un pallone, fissare le avversarie negli occhi, con lo sguardo che le inghiotte, non lasciare loro scampo, annullare qualsiasi cosa attorno, luci, movimenti, suoni.

Tenere solo ciò che viene da dentro quegli ottantuno metri quadri del campo di pallavolo. Entrare in una dimensione senza uno spazio né un tempo per poi risvegliarsi a fine partita e imparare di nuovo la realtà.

Le mani sul volante, gli occhi sulla strada, i sensi allertati. Sfruttando la sua visione periferica teneva sotto controllo lo specchietto retrovisore e il quadro comandi.

Scacciava la noia, resisteva alla tentazione di compiacersi e al rischio di rilassarsi.

Ogni tanto, a voce alta, qualche parola per infondere coraggio e rassicurare le truppe.

Era un felino immobile pronto a scattare sulla preda.

Ma proprio dietro una curva, senza un presagio, senza un vagito le sue truppe cedettero.

Il quadro si spense e l’auto diventò una pietra lanciata nel buio di quella campagna lombarda.

Virginia non perse il controllo, nello specchietto retrovisore nessuna luce. I fari dell’Alfa davanti a lei si allontanavano velocemente e sparivano dietro a un dosso. Toccò il pedale del freno che rispose docile, unico superstite di quell’ammutinamento. Accostò sulla destra, sulla corsia d’emergenza fino a fermarsi completamente.

Gestire l’imprevisto era sempre stata una componente fondamentale della filosofia del suo allenatore e lei una delle migliori a escogitare velocemente soluzioni creative e inimmaginabili.

Si era allenata sul campo. Quale poteva essere il guasto? Era un difetto elettrico, sembrava un corto circuito…per la pioggia, l’umidità… un contatto elettrico… lo zio. Ecco, lo zio.

Le aveva montato l’antifurto in auto pochi giorni fa, un antifurto casalingo, costruito da uno zio che non si arrendeva al pensionamento.

Nel cruscotto prese la pila. Si spaventò per quanto fosse vicino al fossato. Aveva rischiato di finirci dentro ma proprio per questo ora era al sicuro dai camion e dalle altre auto che correvano lungo quella provinciale.

Aprì il cofano alla ricerca della scatoletta colpevole. Il freddo le strinse le tempie.

In un attimo le mani divennero rigide ma non abbastanza da impedirle di disinnescare attentamente quello scrigno. Quando ce lo ebbe in mano controllò se erano rimasti fili staccati. Apparentemente no. Risalì in auto e provò a mettere in moto.

Come una bambina di fronte all’albero di Natale quando finalmente inserisci la spina, Virginia sorrise di fronte alla sua macchina che si illuminava a festa.

Sembrava tutto a posto. Doppie frecce, motore e luci accese. Scese di nuovo per chiudere il cofano.

I fari della sua auto illuminavano la campagna e le doppie frecce accese riflettevano qualcosa, sembrava una ruota di una bicicletta. Una bici era stata abbandonata, lì, in mezzo ai campi, forse dopo un incidente.

Ma accanto alla bici sembrava esserci un indumento che si muoveva con il vento e la pioggia. Virginia prese la pila per illuminare meglio, in quel momento passò un camion che le suonò. Quando il suono di quel clacson si sciolse nella campagna percepì una voce. Non distingueva le parole, erano molto confuse. C’era qualcuno, l’incidente doveva esser successo da poco.

  • Ehi, hai bisogno di aiuto?

La voce continuava a parlare solo un po’ più veloce di prima, sembrava spaventata.

  • C’è qualcuno? Ti sei fatto male?

Virginia, non ebbe il tempo di rendersi conto di ciò che stava facendo che si ritrovò con i piedi nell’acqua. Raggiunse la bici e il bambino.

Provò a toccarlo sulla fronte. Era ferito, aveva la febbre alta, batteva i denti.

Perdeva dalla bocca avanzi di frasi.

In mezzo alla campagna, in quei chilometri anonimi di strada il caso, il destino, la provvidenza, Dio avevano fatto sì che lei si fosse dovuta fermare proprio in quel punto. Sarebbe bastato un singhiozzo del pensiero per fermarsi un poco più in là, ripartire subito dopo e non accorgersi di niente.

E invece con una precisione da neurochirurgo si è fermata proprio lì.

Di nuovo una scossa di adrenalina le attanagliò il surrene. Posso ancora farcela- pensò – non posso perdere il volo.

Ma prima devo avvisare i soccorsi. Non posso lasciarlo qui.

Devo farcela- si ripeté.

– Ora ti porto in ospedale, coraggio piccolo, non mollare, resisti ancora un po’, vedrai che riesco a portarti fuori di qui.

Era buio era impossibile pensare di poter fermare qualcuno. Impossibile e pericoloso. Il lamento del ragazzino assomigliava a un canto, una nenia per tenersi compagnia, per sentirsi meno disperato.

Doveva trovare una cabina del telefono, avvisare il 118 e dare le coordinate perché l’ambulanza potesse trovare il luogo dell’incidente.

Si avvicinò al ragazzino, lo toccò su un braccio, lui si spaventò, si mosse, cacciò un urlo, anche lei si spaventò e indietreggiò. “No, non fare così, ti voglio aiutare, non aver paura, stai qui, adesso risolviamo tutto, adesso chiamiamo qualcuno che ti viene a prendere. Stai tranquillo, sono qua con te.”

Sentiva sulle mani l’appiccicosa viscosità del sangue misto al fango.

Ne sentiva l’odore. Era odore di bambino misto a quello dell’uomo che sarebbe diventato. Chissà quante volte sua madre l’avrà respirato quell’odore per prendere coraggio e farsi passare lo sconcerto della vita.

Si spostò per cercare punti di riferimento per l’ambulanza. Ma era buio, riferimenti non ce n’erano. Cercò di ricordarsi segnali appena superati ma non le venne in mente nulla di significativo. Allora si impresse nella mente qualche riferimento, come si fa in mare aperto: la forma degli alberi illuminati da quel po’ di luna. Un campo chiaro, una fila di alberi in mezzo dopo la curva e una cascina. Andò dal ragazzino, non sapeva se l’avrebbe più rivisto. Lo tranquillizzò. Gli spiegò che andava a cercare soccorsi, che non poteva muoverlo, che doveva avere coraggio, che non lo stava abbandonando ma che quella era la soluzione migliore.

Ma mentre tornava alla macchina con i piedi già troppo infangati per poter fare ancora bella figura con sua madre si sentì messa lì per sbaglio. Si era sbagliato il destino; lei non avrebbe potuto proprio farci niente per impedire a quel bambino di finire la sua vita in una risaia di notte. Avrebbe solamente perso l’aereo, quel volo prenotato con tanta determinazione da sua madre, più di due mesi prima. Avrebbe soltanto perso il volo e, forse, l’amore di sua madre. Anche se quello sembrava già volato via da tempo.

Tornò in macchina e percorse un paio di chilometri nel buio della campagna. Si fermò in un distributore di benzina chiuso ma con una cabina del telefono. Lì fece il 118:

  • C’è un bambino, è ferito, è caduto dalla bicicletta.
  • Ci dica come si chiama e dove si trova.
  • Non so come si chiama, non riesce a parlare bene.
  • Ma non come si chiama il bambino, come si chiama lei.
  • Ah, certo… no, scusi, preferirei non dirlo.
  • Va bene, ma dove si trova?
  • Anche questo non … non so dove siamo… siamo sulla statale, adesso vi sto chiamando da un distributore di benzina. Della Total, credo, sì Total – fece Virginia sporgendosi un po’ fuori per vedere cosa diceva l’insegna- L’incidente è avvenuto molto indietro, dopo una curva, non so spiegarle altro. Non ci sono riferimenti, è molto buio.
  • Va bene, non sposti il bambino, torni da lui, continui a parlargli, arriviamo subito. Tenga le doppie frecce della sua auto accese e se può metta il triangolo.
  • Ma io non posso, devo prendere un aereo, sono già in ritardo.
  • Saprebbe spiegarci il punto esatto in cui è avvenuto l’incidente?
  • Si, è dopo una curva grossa andando verso Milano, un po’ dopo Albairate, credo, c’è un curvone con dei campi di fianco, delle risaie, lui si trova sul rettilineo, a destra. Ci sono degli alberi in fondo…
  • Ma è grave, il ragazzino?
  • Sì, sembra grave, non mi risponde, sta delirando, credo abbia la febbre alta.
  • Lei saprebbe tornare sul punto esatto dell’incidente?
  • Sì, penso di sì, sì, ci so arrivare…è difficile spiegarlo…ma sì, credo di poterci arrivare.
  • Signorina, non ci sono alternative: senza conoscere l’esatta posizione, con questo buio, rischiamo di perdere troppo tempo a cercarlo. E potrebbe essere fatale. C’è il reato di omissione di soccorso in questi casi, lo sa? Anche se sarà difficoltoso individuarla; lei non ha fornito le generalità.
  • Ascolti, io non posso proprio fermarmi, devo prendere un aereo, è importante per me, per …
  • Signorina, ascolti me. Lei ha mai visto l’espressione di una madre che entra in ospedale sapendo che hanno portato qui suo figlio dopo un incidente? Lei ha figli?
  • Allora provi a immaginarselo. Se fosse il figlio suo a essere in pericolo, non desidererebbe con tutto il cuore che qualcuno facesse un sacrificio, per quanto grande, per rimettergli la vita davanti?

Virginia pensò allo strazio di sua zia quando morì sua cugina e si ricordò di aver sperato e pregato che a lei non capitasse mai una cosa del genere.

  • Abbiamo bisogno che lei rimanga e che ci segnali la posizione. Glielo dico chiaramente: se lei se ne va adesso non le sarà torto un capello, la polizia ha poche possibilità di individuarla e francamente credo abbia molto altro da fare. Quindi faccio appello solo alla sua umanità: ti prego, torna lì e non ti muovere.

Per un attimo Virginia si immaginò sulla navetta per l’imbarco dell’aereo con sua madre che le chiedeva della partita, interessata al massimo a conoscere il risultato e nessun altro particolare. D’improvviso tutto stava sbiadendo.

Niente aveva colore come tornare lì.

Annacquato sarebbe stato il viaggio e il motivo del viaggio.

C’era una sola cosa da fare: rinunciare a quell’appuntamento all’aeroporto e scivolare tra le pieghe della vita che aveva deciso di portarla altrove.

Si era immaginata nella sua stanza d’albergo addormentarsi e rivolgere l’ultimo pensiero della giornata a lui, al ragazzino caduto dalla bici. Ma lui non aveva bisogno di quel pensiero.

Si era immaginata cercare di telefonare all’ospedale dall’albergo, dall’estero per sapere se ce l’aveva fatta. Ma lui non aveva neanche bisogno di quell’interessamento.

Nessuna preoccupazione, nessun ricordo, nemmeno una preghiera sarebbero serviti come ora gli serviva quella stretta di mano e quelle doppie frecce accese.

E ci sono volte in cui uno sa che non si possono trovare sostituti. Ci sono cose per cui siamo stati scelti noi e se non le facciamo noi, rimarranno non fatte.

Perché, uno si domanda? Perché proprio io devo stare qui e non un’altra auto, con altri passeggeri, che hanno meno da perdere. Perché non si è fermato qualcun altro, magari due persone che tornavano a casa dopo una serata con amici e che sarebbero stati ben contenti di stare lì a salvare la vita a quel bambino? Chissà quante persone così disponibili avrebbe trovato questa creatura, su un’altra auto. O magari lei stessa sarebbe stata ben contenta di poterlo aiutare, ne sarebbe stata anche orgogliosa, ma in un altro momento, non ora, non lì. Ce ne erano tanti di altri momenti, a ben vedere.

Ma questa domanda non aveva una risposta ed era inutile cercarla.

      – Allora, signorina? Cosa ha deciso? Signorina…è ancora lì?

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